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Dichiarazione dell’Alto Commissario ONU per i Rifugiati Filippo Grandi al Consiglio di Sicurezza

28 Apr 2025

Grazie Presidente,

Da diversi anni il Consiglio di Sicurezza mi invita regolarmente a condividere le mie riflessioni sulla situazione globale dei rifugiati e delle altre persone interessate dal mandato dell’UNHCR. La ringrazio, signor Presidente, per avermi accolto qui ancora una volta – e probabilmente l’ultima in veste di Alto Commissario per i Rifugiati – durante la Presidenza francese. È una pratica utile, d’altronde inscritta nelle vostre procedure, che vi incoraggio a continuare.

Signor Presidente,

Questa è una stagione di guerra. È un periodo di crisi.

Dal Sudan all’Ucraina, dal Sahel al Myanmar, dalla Repubblica Democratica del Congo ad Haiti, la violenza è diventata la moneta corrente della nostra epoca. Sebbene l’UNHCR non faccia parte della risposta delle Nazioni Unite a Gaza, la situazione dei civili, che pensavamo non potesse peggiorare, sta raggiungendo ogni giorno nuovi livelli di disperazione. Mi rendo conto che non sto dicendo ai membri di questo Consiglio nulla che non sappiate già – il che è di per sé un’imputazione- ma purtroppo questa è la realtà del nostro mondo. Un mondo in cui, secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa, 120 conflitti infuriano senza sosta. Ognuno di essi è alimentato dalla stessa perversa e potente illusione: che la pace sia per i deboli; che l’unico modo per porre fine alla guerra non sia il negoziato, ma l’infliggere così tanto dolore ai propri nemici da lasciarli con due scelte: arrendersi o essere annientati.

E così, accecati dall’idea che solo la vittoria militare totale sia sufficiente, non dovrebbe sorprendere che le norme del diritto internazionale umanitario, un tempo rispettate o almeno proclamate tali – proteggere i civili, sostenere la neutralità degli attori umanitari, permettere che gli aiuti più essenziali raggiungano le persone sotto assedio – vengano messe da parte, liquidate con la stessa facilità con cui vengono distrutte migliaia di vite nella ricerca della supremazia. Come ha detto Papa Francesco, “ogni guerra rappresenta non solo una sconfitta della politica, ma anche una vergognosa resa”. Purtroppo non c’è più, ma le sue parole restano più impellenti che mai.

Prevenire e fermare la guerra – sostenere la pace e la sicurezza – è il mandato del Consiglio di Sicurezza. È la vostra responsabilità principale. Una responsabilità che – mi perdonerete se lo ripeto ancora una volta – questo organismo ha cronicamente fallito nel suo intento.

Ma vi prego di non rassegnarvi alla sconfitta della diplomazia. Oggi vi parlo ancora una volta a nome dei 123 milioni di persone costrette alla fuga, che sono tra le prime vittime delle guerre e per molti versi il sintomo più visibile di conflitti e persecuzioni. Colti in situazioni devastanti, hanno cercato la salvezza – o almeno hanno tentato di farlo. Ma continueranno a sperare in un ritorno sicuro. E loro – lo so – non si rassegneranno e non vorranno che noi lo facciamo.

Come la popolazione del Sudan, un terzo della quale è sfollata dall’inizio del conflitto, due anni fa. Una persona su tre! Costretti a fuggire dalle loro case a causa di una situazione che francamente non si può descrivere: violenza indiscriminata, malattie, fame, imperanti atrocità sessuali, inondazioni, siccità.

Un Paese e una società lacerati in un contesto in cui è stata abbandonata ogni pretesa di adesione alle norme umanitarie. All’inizio del mese mi trovavo in Ciad, al confine con il Sudan. Ho incontrato donne e bambini appena arrivati da El-Fasher e Zamzam. Hanno raccontato orrori, ma soprattutto paura. Ai civili del Darfur viene regolarmente impedito di fuggire dalle zone pericolose. Peggio ancora, sono attivamente presi di mira – avrete visto i recenti rapporti sugli attacchi contro i civili all’interno e intorno ai campi per gli sfollati, dove la consegna degli aiuti non è solo una sfida logistica e di sicurezza, come nel resto del Paese, ma anche un incubo burocratico intrecciato con politiche tossiche. Ecco perché è stato così significativo che quelle stesse famiglie, raccontandomi le loro storie, indicassero il confine e dicessero che attraversarlo, nonostante tutte le difficoltà che sapevano avrebbero dovuto sopportare, significava lasciarsi alle spalle almeno quella paura – nessuna testimonianza migliore del potere salvavita dell’asilo.

Mentre il numero di sfollati sudanesi continua a crescere, gli umanitari hanno lanciato l’allarme sul terribile costo umano imposto al popolo sudanese e al suo futuro. Avvertendo anche – come ho fatto ancora una volta alla Conferenza di Londra solo pochi giorni fa – che le conseguenze di questo conflitto si sono ormai estese ben oltre i confini del Sudan, e in particolare a quei Paesi che complessivamente ospitano più di tre milioni di rifugiati sudanesi, dall’Egitto, all’Etiopia, all’Uganda, alla Repubblica Centrafricana. I più colpiti sono il Ciad e il Sud Sudan, che devono affrontare enormi sfide oltre all’afflusso di rifugiati, ma che hanno mantenuto aperte le loro frontiere nonostante i finanziamenti umanitari siano largamente insufficienti – l’ultimo appello regionale per i rifugiati è finanziato solo all’11%.

Eppure, i bisogni sono enormi. I rifugiati arrivano senza nulla e ricevono una frazione di ciò che è necessario a causa del calo dei finanziamenti per gli aiuti, oltre a tutto ciò che le comunità ciadiane vicine al confine possono permettersi. Le autorità ciadiane non risparmiano gli sforzi. Le leggi e le politiche ciadiane sui rifugiati sono tra le più progressiste al mondo. Mancano le risorse per continuare ad accogliere i rifugiati. Non possiamo lasciarli soli.

Perché non c’è nulla di inevitabile, signor Presidente, nella decisione di ospitare, proteggere e assistere i rifugiati – lo dimostrano chiaramente le risposte molto meno accoglienti per le persone in fuga nei Paesi molto più ricchi. Tutti i Paesi fanno delle scelte, e mi avete sentito in disaccordo con molti di essi. In questo caso, i Paesi che accolgono i rifugiati stanno prendendo la decisione giusta. Stanno facendo la loro parte. Noi, gli operatori umanitari, siamo sul campo e facciamo la nostra parte. Dovete essere più impegnati e più uniti per fare la vostra. Ogni giorno che passa senza che le parti in conflitto in Sudan si presentino al tavolo dei negoziati peggiora la guerra e la rende anche più complicata: i rifugiati parlano non solo di due parti, ma di una proliferazione di milizie locali, liberamente affiliate agli attori principali, che perpetrano abusi violenti.

Questa confusione mortale è una caratteristica delle guerre moderne. Avremmo dovuto imparare la lezione dalle guerre nella Repubblica Democratica del Congo o in Afghanistan, le cui conseguenze sono ancora oggi avvertite da molti membri di questo Consiglio. Perché se le dinamiche attuali – l’impotenza rassegnata e la diminuzione degli aiuti – non cambiano, non facciamoci illusioni: gli effetti destabilizzanti della guerra in Sudan aumenteranno, compresi gli spostamenti di persone: già oggi ci sono più di 200.000 sudanesi in Libia, molti dei quali potrebbero dirigersi verso l’Europa.

Signor Presidente,

anch’io, come lei, seguo con grande preoccupazione gli ultimi sviluppi in Ucraina, un Paese che ho visitato sei volte dal 2022. A gennaio sono stato a Kiev e a Sumy, città che hanno subito attacchi devastanti proprio negli ultimi giorni. Ho potuto constatare il terribile tributo che questa guerra continua ad avere sul popolo ucraino, e in particolare sui più vulnerabili – anziani, bambini, famiglie – la cui resilienza rimane comunque ammirevole, anche se si è esaurita. L’UNHCR lavora a stretto contatto con il governo e con i partner della società civile locale per contribuire ad alleviare le sofferenze e a riportare un po’ di normalità e speranza nella vita delle persone.

Ma è chiaro che, come hanno detto in molti, ciò di cui la gente ha bisogno è una pace giusta. Il mio ruolo non è quello di descriverne l’aspetto, ma di ricordare a tutti coloro che sono impegnati negli sforzi di pace di non dimenticare la situazione di oltre 10 milioni di ucraini sfollati – sette milioni dei quali sono rifugiati. È fondamentale continuare a pianificare il loro eventuale ritorno nelle loro comunità. Ma non torneranno se non potranno essere al sicuro, a breve e a lungo termine. A meno che le sirene non smettano di annunciare attacchi in arrivo, a meno che non abbiano accesso a un alloggio, a servizi e a un lavoro decenti e a meno che non siano sicuri che i termini della pace siano duraturi, per loro e per il loro Paese.

Questo è il calcolo essenziale per porre fine alle crisi umanitarie e dei rifugiati, signor Presidente. Sicurezza e autosufficienza. Ed entrambe devono trasmettere la sensazione di essere durature.

Le soluzioni sono un lavoro duro. Richiedono impegno e compromessi. Non si può fare la pace passivamente o sperare che avvenga per mero logorio. Ecco perché è ancora più importante che quando emergono opportunità anche inaspettate, dobbiamo essere pronti a coglierle. Ed essere pronti a correre rischi calcolati.

Negli ultimi otto anni, ad esempio, la risposta del Myanmar è stata caratterizzata dalla stagnazione. I combattimenti tra il Tatmadaw e diversi gruppi armati hanno causato immense sofferenze e costretto persone a fuggire su larga scala in tutto il Paese e nella regione – una situazione esacerbata dal terribile terremoto che ha colpito il Paese un mese fa. La situazione della minoranza Rohingya, in particolare, si è ulteriormente aggravata. I combattimenti nello Stato di Rakhine con l’Esercito Arakan sono stati particolarmente feroci – 1,2 milioni di Rohingya sono oggi rifugiati, per lo più in Bangladesh, nei campi intorno a Cox’s Bazaar.

Dobbiamo ringraziare il Bangladesh e il suo popolo per aver dato loro rifugio nel corso degli anni. Ma i rifugiati Rohingya languono nei campi, senza lavoro, sejnza autonomia, interamente dipendenti dagli aiuti umanitari, che diventano sempre più precari. Metà della popolazione rifugiata ha meno di 18 anni. Sono, parafrasando il consigliere capo Yunus, scollegati dalle opportunità ma connessi al mondo attraverso Internet. C’è da stupirsi che molti si sentano costretti a intraprendere pericolosi viaggi in mare alla ricerca di opportunità? O che chi cerca di reclutare combattenti trovi terreno fertile?

Ma ora c’è l’opportunità di rompere questa pericolosa inerzia. Il governo ad interim del Bangladesh ha scelto di impegnarsi con le parti in conflitto nello Stato di Rakhine per cercare una soluzione – dove giustamente si trova. Molti diranno subito che una soluzione del genere oggi è impossibile per tutte le ragioni che conosciamo: troppo sangue è stato versato, la discriminazione continua e ci sono troppi interessi in competizione da bilanciare. Molti diranno che le cause profonde non saranno mai affrontate in modo efficace, e forse è proprio così.

Ma sono otto anni che percorriamo la strada della stagnazione per quanto riguarda la situazione dei Rohingya: è un vicolo cieco. Dal punto di vista della ricerca di soluzioni alla situazione dei Rohingya e per iniziare a ricreare le condizioni per il ritorno dei rifugiati, il dialogo con tutte le parti è un primo passo fondamentale affinché le agenzie umanitarie – compreso l’UNHCR – possano ristabilire la loro presenza e riprendere a fornire i soccorsi umanitari disperatamente necessari – in modo sicuro e libero. Questo, a sua volta, fornirebbe una base su cui riavviare le discussioni sull’eventuale ritorno dei Rohingya sfollati – sottolineo: volontariamente, in sicurezza e dignità – una volta che la situazione della sicurezza nel Rakhine lo consentirà, e da dove si potrebbero garantire anche altri diritti legali. È sicuramente un’ipotesi azzardata, ma vi esorto a pensare fuori dagli schemi e a correre qualche rischio. Spero che il Consiglio continui a concentrarsi con forza sulla situazione in Myanmar, compresa la condizione dei Rohingya, e attendo con ansia la conferenza prevista per settembre qui a New York.

Signor Presidente,

Altri possibili punti di svolta sono visibili, letteralmente, anche da qui. Venerdì, la nuova bandiera della Siria è stata issata alle Nazioni Unite – un simbolo potente per tutti i siriani! E qui abbiamo un’altra crisi umanitaria e di persone in fuga di lunga durata per la quale potrebbe ora essere possibile trovare una soluzione inaspettata. Ma per perseguirla, tutti voi dovete dare priorità al popolo siriano rispetto a politiche di lunga data, alcune delle quali sono francamente superate. Ciò comporta anche l’assunzione di rischi calcolati. Naturalmente, non possiamo essere ingenui: rimangono molte sfide – le avete sentite descrivere venerdì dal Ministro Shaibani. È impossibile superare la devastazione causata da 14 anni di guerra in pochi mesi. Ma, per la prima volta da decenni, c’è una scintilla di speranza, anche per i milioni di siriani che ancora oggi sono sfollati, 4,5 milioni dei quali rifugiati nei Paesi vicini.

Dall’8 dicembre, questi numeri stanno diminuendo – lentamente ma costantemente – mentre aumentano i ritorni dei siriani sfollati all’interno del Paese. Osserviamo un aumento dei rientri anche da Giordania, Libano e Turchia. Stimiamo che oltre un milione di persone – un milione di persone! – sono già tornate e, stando a quanto emerge da recenti sondaggi, potrebbero seguirne molte altre.

Se resteranno in Siria o se, tragicamente, si sposteranno di nuovo – anche in Europa e oltre – dipende, ovviamente, dalle autorità, ma anche – e molto – dalla vostra volontà di rischiare. Alleggerire le sanzioni, sostenere seriamente la ripresa precoce, stimolare gli investimenti del settore privato e di altri soggetti: in una parola, creare le condizioni affinché gli elementi di base di una vita dignitosa – sicurezza, acqua, elettricità, istruzione, opportunità economiche – siano disponibili per il popolo siriano mentre inizia a ricostruire le proprie comunità. Per ridurre al minimo i rischi che corrono i siriani di ritorno, vi chiedo di correre voi stessi dei rischi, politici ed economici. E sì, questo deve anche significare aiuti umanitari sostenuti e più significativi, che al momento – come ovunque – sono in forte diminuzione.

Signor Presidente,

prima di concludere, sarei negligente se non richiamassi l’attenzione del Consiglio sulla situazione critica del finanziamento degli aiuti. Proprio nel momento in cui si spera di trovare finalmente una soluzione a diverse crisi di persone in fuga- non solo in Siria, ma anche in Burundi o nella Repubblica Centrafricana – assistiamo a un allontanamento dagli aiuti, dal multilateralismo e persino dall’assistenza salvavita. Sentiamo parlare di dare priorità agli interessi nazionali, di aumentare le spese per la difesa – tutte preoccupazioni valide, naturalmente, e legittimamente perseguite dagli Stati. Ma queste non sono incompatibili con gli aiuti, al contrario.

E così, mi ritrovo a ripetere sempre la stessa argomentazione, cercando di convincere i Paesi donatori di una realtà che tutti possiamo vedere chiaramente: gli aiuti sono stabilità. Il congelamento o il taglio dei bilanci degli aiuti sta già avendo conseguenze fatali su milioni di vite. Significa, tra l’altro, abbandonare gli sfollati al loro destino, togliere il sostegno a Paesi ospitanti talvolta molto fragili e, in ultima analisi, minare la propria stabilità.

Il multilateralismo, infatti, compresi gli aiuti multilaterali, contribuisce a questa stessa stabilità e rimane indispensabile per trovare soluzioni alle crisi, compreso le persone costrette alla fuga. Potrò sembrare anacronistico, signor Presidente, ma dopo oltre 40 anni di attività umanitaria, e quasi 10 anni nel mio attuale lavoro, continuo a credere che è sedendo allo stesso tavolo che tutte le voci possono essere ascoltate – i forti e i meno forti. E a coloro che ritengono che il multilateralismo sia soffocante, lento e non allineato con le vostre priorità, spero che vi rendiate conto che abbandonare il dibattito non significa che la discussione finisca. Non finirà, ma sarà meno efficace e meno convincente. Abbiamo bisogno di tutti voi.

I rifugiati offrono uno dei migliori esempi di questo compito condiviso. Perché se vi guardate intorno in questa sala, vedrete, come me, che lo sfollamento forzato ha riguardato tutti i membri del Consiglio di Sicurezza in un momento o nell’altro, in un modo o nell’altro. La lotta per la libertà, la lotta contro l’oppressione, l’obbligo di abbandonare la propria casa a causa di guerre, violenze e persecuzioni, il rifugio offerto a coloro che sono costretti a fuggire: anche questi sono elementi familiari nella storia di ciascuno dei vostri Paesi, profondamente intrecciati in modi complessi e unici nelle vostre tradizioni e nei vostri valori. Voi siete stati i rifugiati. Avete accolto coloro che cercavano rifugio.

Ora vi sedete a questo tavolo, con la responsabilità di porre fine alle guerre, di portare la pace. E dovete riuscirci.

Non lo dovete solo a tutti coloro che sono sfollati e che contano su di voi.

Lo dovete anche a voi stessi.

Grazie mille.

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