Mohamed Alkalifa Ag Mohamed sa che alcune semplici domande possono fare la differenza tra speranza e disperazione per le persone appena fuggite dalle loro case.
La sua famiglia ha passato anni ad accogliere connazionali maliani sfollati prima dalla siccità e poi dalla violenza, fino al giorno in cui e’ stata costretta a fuggire a sua volta dal conflitto.
Dopo essere fuggito in Mauritania e essersi stabilito nei pressi del campo di rifugiati di M’bera, Mohamed ha iniziato a visitare i centri che accolgono i rifugiati appena arrivati e a osservare come venivano accolti dagli operatori umanitari.
“In quei momenti, ho capito l’importanza di alcune espressioni, come: ‘Stai bene? Riposati un po’, per favore. Come posso aiutarti? Desideri un po’ d’acqua…?'”.
“Ho visto il sollievo sul volto di molti rifugiati che si sentivano più sicuri perché compresi… Mi ha ricordato quello che ho provato io quando sono arrivato”, ha detto Mohamed, che dopo sei anni e’ riuscito a tornare in Mali e oggi lavora come assistente alla comunicazione per l’UNHCR, Agenzia ONU per i Rifugiati.
Mohamed è uno dei tanti colleghi che lavorano all’UNHCR e hanno avuto un’esperienza personale della fuga – e uno delle centinaia di migliaia di operatori umanitari in tutto il mondo che vengono celebrati ogni 19 agosto, in occasione della Giornata umanitaria mondiale. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha scelto questo giorno in onore del diplomatico brasiliano Sérgio Vieira de Mello e di altre 20 persone uccise in un attentato alla sede delle Nazioni Unite presso il Canal Hotel di Baghdad il 19 agosto 2003.
Oleksandra Lytvynenko, assistente alla protezione presso l’ufficio dell’UNHCR a Dnipro, in Ucraina, è stata costretta a fuggire due volte. La prima volta che è fuggita dai combattimenti tra le forze governative e quelle filorusse nella sua città natale, Luhansk, nel 2014, ha portato con se’ solo pochi vestiti estivi, pensando che sarebbe stata via al massimo per qualche settimana. Non è più tornata.
Vivendo come sfollata interna nella città di Sievierodonetsk, all’inizio ha faticato a trovare lavoro, ma l’esperienza con i bambini e le famiglie che ha accumulato lavorando per le autorità locali di Luhansk le ha permesso di entrare in UNHCR. Quando la Russia ha invaso l’Ucraina a febbraio, era a capo dell’unità sul campo di Sievierodonetsk. Lei e la sua squadra sono stati evacuati a Dnipro dopo che per diverse settimane erano stati impegnati ad organizzare distribuzioni di cibo, materiali per l’alloggio e altri beni di prima necessità durante il giorno, mentre la notte dormivano in un bunker.
“La seconda volta [che sono fuggita], sapevo cosa portare, quali vestiti. Ho portato un po’ per l’estate, un po’ per l’autunno, un po’ per l’inverno – non come la prima volta”, ha detto Oleksandra. “La seconda volta ho capito che non sarei tornata”.
Oleksandra attinge alla sua esperienza per aiutare gli sfollati con cui lavora. Spiegare loro che potrebbero non essere più in grado di tornare a casa è la parte più difficile del suo lavoro, ha detto, ma per la quale la sua vita l’ha preparata.
“Capisco le persone e capisco che si sono lasciate alle spalle tutto, case, parenti, tutto. Ma spiego loro che la vita va avanti”, ha detto, aggiungendo che cerca di alleviare lo stress del lavoro facendo esercizio fisico e passando del tempo con gli amici.
“Sono una persona costretta a fuggire, e questo significa che tra i miei parenti e amici ci sono moltissime persone costrette a fuggire una o due volte, e forse è per questo che mi sento meglio se aiuto le persone”.
Maha Ganni, 52 anni, esperta di reinsediamento a Panama per l’UNHCR, è nata in Kuwait da genitori iracheni cristiani. Lei e i suoi tre fratelli, tra cui una gemella identica, hanno goduto delle comodità offerte dal lavoro del padre, ingegnere elettrico presso la compagnia petrolifera nazionale del Kuwait: una casa lussuosa e una scuola superiore in lingua inglese.
Ma nel 1990, nel bel mezzo della loro carriera universitaria – Maha studiava decorazione d’interni a Cipro, mentre la gemella si stava laureando in economia in Giordania – l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq diede il via a quella che si sarebbe rivelata una lunga serie di spostamenti per i Ganni. La famiglia si disperse in diversi continenti e passarono quattro anni prima che Maha rivedesse i suoi genitori.
Non potendo tornare a Cipro a causa delle sanzioni imposte all’epoca ai cittadini iracheni, Maha chiese asilo in Spagna. Ma lì non riusci’ a studiare perche’ l’’ambasciata del Kuwait le nego’ l’accesso per certificare il suo diploma di scuola superiore.
Nonostante la precarieta’, Maha decise di approfittare della situazione per imparare lo spagnolo (era già trilingue in arabo, inglese e caldeo, una lingua biblica ancora parlata da alcuni cristiani iracheni). Queste conoscenze linguistiche le hanno permesso di lavorare come interprete per un programma di reinsediamento di rifugiati gestito dall’ufficio affiliato della Commissione cattolica internazionale per le migrazioni in Spagna. Molti dei rifugiati e degli altri sfollati che ha incontrato avevano vissuto situazioni che a Maha ricordavano la sua.
“È stato allora che ho capito quanto questo lavoro sia parte di me”, ha detto. “Lavorare con i rifugiati è davvero la mia passione. Non mi vedo a fare altro”.
Lavorando per l’UNHCR, Maha ha vissuto in Libano, Ecuador, Sudafrica ed Emirati Arabi Uniti. Negli ultimi due anni ha lavorato come esperta di reinsediamento per l’Ufficio regionale dell’UNHCR per le Americhe, a Panama, sostenendo il reinsediamento di coloro che sono costretti a fuggire dalla violenza delle gang e da altre minacce. Come cattolica, ogni volta che un rifugiato viene reinsediato in un altro Paese, Maha sente che una delle sue preghiere sia stata esaudita.
“Quando incontro i rifugiati, dico loro: “Io sono te e tu sei me”. Questo ha davvero un impatto sulle persone perché si sentono ascoltate. Si sentono comprese. All’UNHCR vogliamo persone che empatizzano con i rifugiati, non persone che si dispiacciano per loro”, ha detto Maha.
“Il mio primo capo ha detto che gli piaceva assumere rifugiati perché portiamo con noi sia la lingua che l’esperienza. Penso sia vero”.
Scritto da Sarah Schafer con il contributo di Jenny Barchfield, Chadi Ouanes e Kristy Siegfried.
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