Farishta, appena ventottenne, ha provato sulla propria pelle tutte e tre queste condizioni. E ciò ha esposto lei e i due figli a un rischio ancora maggiore con l’aggravarsi della crisi umanitaria del paese.
Quest’estate, lei e il resto della famiglia sono dovuti fuggire perché i talebani hanno invaso Takhar, la loro provincia natale, nel nord dell’Afghanistan. Uno dei fratelli di Farishta, Salim, aveva lavorato come traduttore per le forze armate americane, e temevano che potesse diventare un bersaglio. Hanno quindi deciso di cercare rifugio in Iran. Pur essendo un viaggio rischioso, si stima che circa 500.000 afghani abbiano tentato di affrontarlo da agosto.
Ma con un gruppo familiare di 20 persone, compresi fratelli e figli, non potevano permettersi le tangenti che i trafficanti richiedevano per far attraversare il confine. Così i genitori e i fratelli più piccoli sono andati in Iran, mentre Farishta, sua figlia Rehana, 10 anni, e il figlio Aslam, 11 anni, non sono partiti.
Nonostante il pericolo, è rimasto anche Salim, 20 anni, per prendersi cura di Farishta. In quanto vedova, da sola sarebbe stata particolarmente vulnerabile a causa delle difficoltà che le donne hanno nel trovare lavoro. Sotto il governo talebano, il tutto sarebbe risultato ancora più difficile. Quando i combattenti avevano invaso Kabul, si temeva che avrebbero impedito alle donne di uscire di casa senza un mahram, ossia un tutore di sesso maschile, una regola che in passato aveva reso le vedove indigenti. “Non potevo lasciare che mia sorella rimanesse da sola”, spiega Salim. “Dovevo proteggerla”.
Ma non potevano nemmeno tornare a casa, e questo ha reso tutti e quattro sfollati interni. Ed è in questo momento che si fanno sentire le conseguenze di un’altra parte della storia di Farishta: il matrimonio forzato ad appena 17 anni.
Il padre del defunto marito chiedeva da tempo che i figli della donna, Rehana e Aslam, fossero affidati alla sua custodia, dicendo che gli appartenevano. Farishta era tornata a casa dei suoi genitori dopo la morte del marito, quando era incinta di Rehana. “Anche allora, mio marito mi picchiava”, rivela. Senza la sua famiglia a proteggerla, trovare rifugio nella capitale era l’unica opzione. La donna aggiunge che il padre del marito continua a chiamarla. “Sa che siamo a Kabul. Ho il terrore che scopra dove viviamo”.
L’UNHCR ha fornito aiuto a Farishta e al suo piccolo gruppo familiare (fino ad ora con circa 490 dollari statunitensi sotto forma di assistenza economica in contanti), dopo che un team di valutazione li ha reputati idonei a ricevere assistenza emergenziale. Il contributo li aiuterà a coprire i costi del monolocale in affitto che li ospita e ad acquistare legna da ardere, coperte e vestiti per affrontare l’inverno. Ma il peso sulle spalle di Farishta non è certo diminuito.
Il resto della famiglia in Iran sta lottando contro l’indigenza: i suoi fratelli sono riusciti a trovare solo un lavoro sottopagato come spazzini. Anche ora che cerca di prendersi cura dei figli da sola, Farishta ha dovuto inviare denaro alla sua famiglia in Iran per aiutarli, indebitandosi.
“Vorrei poter dare ai miei figli un futuro migliore, vorrei che ricevessero un’istruzione, ma siamo in una situazione di stallo”, ammette. “La depressione non mi abbandona mai”.
L’unica speranza che ha è di ricevere più aiuti.
Emergenza Afghanistan. Non lasciamoli soli
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