La ginecologa yazida Nagham Nawzat Hasan ha curato più di mille donne yazide sfuggite alla prigionia dell’ ISIS.
Spesso alla fine della giornata Nagham Nawzat Hasan scrive sul quaderno che tiene in bilico sulle ginocchia, accoccolata in un angolo del divano nella luce soffusa. Qui annota i raccapriccianti racconti delle donne yazide fuggite dalla violenza dopo essere state rapite dalle loro case nel nord dell’Iraq e tenute prigioniere dall’ISIS.
Quattro anni fa ha deciso di dedicare la sua vita lavorativa ad aiutare le donne sopravvissute a riprendersi dagli abusi subiti. Da allora, Nagham ha aiutato più di mille donne sfuggite alla prigionia dell’ISIS, trascrivendo innumerevoli pagine di orrori come parte di un rituale personale diventato in parte testimonianza, in parte terapia.
“Ho scritto più di 200 storie. Mi sento come se avessi il dovere di registrare tutto, per i posteri”, ha spiegato. “Tornavo a casa e piangevo, pensando a tutto ciò che avevo sentito. Mi ha colpito psicologicamente. Sono anche io yazida e donna. Scrivere le loro storie mi aiuta ad alleviare questo trauma”.
La comunità yazida di Sinjar nell’Iraq nord-occidentale, la cui antica religione affonda le sue radici nel sufismo e nello zoroastrismo, è diventata bersaglio dell’ISIS nell’agosto 2014. I combattenti armati hanno separato gli uomini e i ragazzi di età superiore a 12 anni dalle loro famiglie, e hanno ucciso quelli che si sono rifiutati di adottare le loro credenze.
Si stima che oltre 6.000 donne e ragazze yazide siano state rapite, vendute come schiave e imprigionate per mesi o addirittura anni. Molte sono state sottoposte a detenzione, tortura e stupro sistematico, nell’ambito di una campagna di persecuzione che l’ONU ha ritenuto un genocidio e un crimine contro l’umanità. Fino ad oggi, il destino di oltre 1.400 donne yazide rimane sconosciuto.
Nagham stava lavorando in un ospedale a Baashiqa, una città a 14 chilometri a nord-est di Mosul, quando l’area è caduta sotto i militanti. Mentre lei e la sua famiglia sono fuggiti a Duhok, nella regione del Kurdistan nel nord dell’Iraq, hanno iniziato a sentire le notizie di uomini yazidi massacrati e di donne e bambini rapiti.
Pochi mesi dopo, Nagham ha saputo che due donne yazide erano arrivate a Duhok dopo essere fuggite dai loro rapitori. Nel cercarle, ha inconsapevolmente cambiato il corso della propria vita.
“Il mio lavoro è iniziato quando le donne yazide sono riuscite a fuggire a Duhok”, ha detto. “Ho visto subito che erano state distrutte. Avevano perso ogni fiducia nelle persone, quindi ho deciso di ricostruire questa fiducia”.
“Mi sono avvicinata a loro e le ho incoraggiate a cercare aiuto e cure. Ho dato loro il mio numero di telefono e lentamente ho costruito un rapporto di fiducia. In poco tempo, le donne appena scappate hanno iniziato a chiamarmi senza bisogno che io le cercassi”.
Il suo lavoro è stato segreto all’inizio: prima le donne sopravvissute avevano bisogno di venire a patti con quello che era successo. Quando è stato chiaro quali atrocità fossero state commesse contro le prigioniere, i leader della comunità yazida hanno chiesto che le donne venissero nuovamente accolte.
“La comunità yazida ha avuto un ruolo importante. Sono stati i primi ad accogliere queste donne”, ha spiegato Nagham. “L’accettazione da parte delle loro famiglie e il sostegno della comunità hanno rappresentato un passo importante, ma avevano bisogno di più”.
La sua esperienza di ginecologa è stata essenziale, ma i bisogni delle sopravvissute andavano ben oltre le cure mediche. “Dal punto di vista medico, la maggior parte delle donne presentava dolori continui. Molte hanno contratto malattie veneree a causa dei numerosi stupri subiti. E anche lo stato psicologico delle sopravvissute era estremamente grave”.
Nagham ha iniziato a dedicare sempre più tempo a fare visita alle donne sopravvissute nelle loro case, dove si sentivano più sicure. Due anni fa, ha creato la sua ONG chiamata “Hope Makers for Women”, che fornisce supporto medico e psicologico alle sopravvissute che vivono nei campi allestiti per ospitare gli yazidi che hanno dovuto lasciare le loro case.
In un’abbagliante mattinata invernale, Nagham arriva tra le tende nel campo vicino al lago di Mosul Dam. E’ una delle sue solite visite, ma viene accolta come una di famiglia da una mezza dozzina di donne sorridenti, che la soffocano di baci e abbracci. Poi visita una delle sue pazienti regolari, una giovane donna che è stata tenuta prigioniera per quasi tre anni insieme alle sue tre figlie.
“La vita è stata tremenda dopo la fuga dall’ISIS, all’inizio non riuscivo nemmeno a uscire dalla mia tenda”, ha spiegato la giovane madre. “La dott.ssa Nagham si è resa completamente disponibile per noi. Ci ha guarito e si è presa cura di noi. Mi ha aiutato a trovare una forza che non sapevo di avere”.
Per Nagham le condizioni di vita sopportate da molte sopravvissute rende la guarigione più difficile. “Sono fuggite dall’ISIS e poi passano due o tre anni in una tenda in un campo, senza lavoro – come possono guarire trovandosi in una situazione del genere?”.
Oltre a fornire assistenza umanitaria continua agli yazidi sfollati, l’UNHCR – l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati – collabora con le organizzazioni partner per stabilire standard uniformi per la terapia, per garantire che donne e ragazze ricevano cure soddisfacenti.
Nagham sostiene che il sostegno internazionale per gli yazidi dovrebbe essere costante affinchè possano davvero guarire dai crimini commessi contro di loro. “Il sostegno internazionale agli yazidi è diminuito dalla liberazione di Mosul. Alcuni, come l’UNHCR e l’UNFPA, stanno ancora offrendo assistenza, ma il supporto in generale sta diminuendo. Sono preoccupata che in futuro questo supporto sparirà completamente”.
Nagham chiede alla comunità internazionale di offrire più posti di reinsediamento alle sopravvissute yazide che scelgono di ricominciare la loro vita altrove. Invece, le persone che scelgono di rimanere in Iraq hanno bisogno di assistenza finanziaria per costruire la propria vita al di fuori dei campi, nonché programmi di formazione e schemi per la creazione di posti di lavoro per aumentare le loro prospettive economiche, aggiunge.
Lei stessa continuerà a lavorare per aiutare le sopravvissute yazide e altri che hanno vissuto esperienze simili. “Questo è quello che voglio fare della mia vita. Sono diventata un medico per prendermi cura delle persone e aiutare chi ha bisogno. Sono ancora un medico, ma invece di lavorare in ospedale, lavoro come operatrice umanitaria”.
Accanto ai suoi quaderni pieni di storie di sofferenza e dolore si trova un altro libro che serve a Nagham da promemoria per ricordare perchè ha scelto questa vita. Una delle prime sopravvissute con cui ha lavorato è stata la vincitrice del premio Nobel per la pace Nadia Murad, che sei mesi fa ha inviato a Hasan una copia del suo memoriale.
Una dedica scritta a mano all’interno recita: “Alla cara dott.ssa Nagham. Ognuno di noi ha combattuto l’ISIS più che poteva, ma tu l’hai combattuto con l’arma più potente il giorno in cui hai deciso di guarirci. Quando hai riportato in vita le nostre anime”.
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