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Dichiarazione dell'Alto Commissario dell'UNHCR alla Terza Commissione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite

Discorsi e Dichiarazioni

Dichiarazione dell'Alto Commissario dell'UNHCR alla Terza Commissione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite

7 November 2025
UNHCR

Signor Presidente, illustri delegati,

questa è la decima ed ultima volta che mi rivolgo a questa Commissione in qualità di Alto Commissario per i rifugiati.

Ogni anno, negli ultimi dieci anni, sono venuto qui per parlare dell'impatto devastante della guerra, della violenza e della persecuzione su milioni di persone costrette ad abbandonare le loro case.

Ogni anno in questa commissione ho descritto come, con il vostro sostegno, l'UNHCR risponde alle emergenze umanitarie in prima linea, fornendo (insieme ai suoi partner) assistenza vitale ai rifugiati: alloggio, cibo, acqua; come lavora per garantire che i rifugiati e gli sfollati abbiano accesso alla sicurezza, siano registrati, possano usufruire dei servizi di base; come si sforza di dare, quando possibile, un po' di speranza a persone che hanno perso tutto.

E ogni anno ho detto che il numero di rifugiati e di altre persone sfollate con la forza era aumentato. Ogni anno tranne quest'anno.

Perché sì, per la prima volta in quasi un decennio, questo numero è diminuito. Da 123 milioni alla fine del 2024 a circa 117 milioni oggi.

Questo può sembrare sorprendente. Perché il mondo non è diventato più sicuro, anzi. I conflitti, vecchi e nuovi, continuano a imperversare: in Sudan, dove abbiamo assistito ancora una volta a violenze scioccanti, ma anche recentemente a Gaza, in Ucraina, in Myanmar e in molti altri luoghi.

Come possiamo allora spiegare questo calo delle cifre relative alle persone in fuga in un momento di continua instabilità globale?

Vorrei iniziare parlando delle soluzioni alle crisi di rifugiati e di sfollati. O meglio, della possibilità di soluzioni.

Questo calo inaspettato delle cifre su rifugiati e sfollati interni è in gran parte dovuto al ritorno di alcuni di loro nei loro luoghi di origine. In molti casi (ma non in tutti), i rientri sono stati volontari, nonostante la continua fragilità dei paesi di ritorno.

Perché questa è la natura della volontarietà: la decisione di tornare spetta ai rifugiati stessi, sulla base di una valutazione di ciò che è meglio per loro. La natura volontaria dei ritorni è una distinzione importante che le statistiche non sempre riescono a cogliere, poiché il calo del numero totale di rifugiati e sfollati comprende purtroppo anche i ritorni non volontari.

Vorrei quindi concentrarmi sulle due situazioni che hanno determinato tali statistiche.

In primo luogo, il ritorno dei siriani che erano fuori casa – che solo pochi mesi fa sembrava impossibile – illustra molto chiaramente la dinamica della volontarietà. Dall'8 dicembre 2024, più di 1,1 milioni di rifugiati sono tornati in Siria dai paesi vicini. Sono tornati a casa anche due milioni circa di sfollati all'interno del paese. Tuttavia, la loro permanenza in Siria dipenderà in gran parte dalla sicurezza (e abbiamo visto quanto la situazione rimanga instabile) e dall'accesso ai beni di prima necessità – alloggi, lavoro, elettricità, cliniche, scuole, servizi finanziari – senza i quali potrebbero essere costretti a spostarsi nuovamente.

Per affrontare questo problema, la Siria ha bisogno di sostegno, inizialmente di natura umanitaria. Ecco perché i team dell'UNHCR sono sul campo, aiutando chi rientra con bisogni immediati - assistenza in denaro, ripristino degli alloggi, documentazione e questioni legali - lavorando a sostegno delle autorità centrali e locali.

Ma occorre fare molto di più. La comunità internazionale, e in particolare i donatori della regione del Golfo e dell'Europa e le istituzioni finanziarie internazionali, devono intensificare il loro sostegno alla costruzione di infrastrutture, al ripristino dei servizi, alla riforma del settore della sicurezza e al rilancio dell'economia. Ciò darà spazio e opportunità a tutto il popolo siriano, sotto la guida delle sue autorità, per ricostruire il proprio Paese; consentirà a un maggior numero di rifugiati di tornare e a coloro che lo fanno di rimanere. Ciò contribuirà anche ad alleviare la pressione sui paesi della regione - Libano, Giordania, Turchia, Egitto e Iraq - che da anni ospitano generosamente i rifugiati siriani.

La stessa opportunità esiste in altre parti del mondo, ad esempio in Burundi o nella Repubblica Centrafricana, solo per citarne due. Con ulteriori fondi umanitari e con investimenti nello sviluppo delle aree di ritorno, il lavoro dell'UNHCR può contribuire direttamente alla sicurezza globale e alla stabilità regionale. Per questo motivo sono particolarmente grato agli Stati Uniti per aver contribuito a riconoscere il nostro mandato e il nostro ruolo unico nel contesto del recente accordo di pace tra la Repubblica Democratica del Congo e il Rwanda, una potenziale svolta in un conflitto che dura da decenni. Come stabilito nell'accordo tripartito del 2010, l'UNHCR è pronto a svolgere il proprio ruolo nel consolidamento della pace e nell'aprire la porta al ritorno volontario, sicuro e dignitoso di milioni di rifugiati e sfollati alle loro case.

Questi sviluppi dimostrano che con l'impegno politico è possibile creare maggiori opportunità di soluzione, anche in luoghi come il Myanmar o il Sudan, per affrontare le cause profonde che continuano a prolungare le crisi umanitarie e dei rifugiati. Si tratta di un messaggio importante qui a New York, dove, a pochi passi da qui, nel Consiglio di Sicurezza, continuiamo a vedere tensioni e divisioni che bloccano il percorso verso la pace.

La situazione degli afghani, e in particolare di quelli costretti a tornare in Afghanistan, principalmente dall'Iran e dal Pakistan, è stata l'altro fattore che ha determinato la diminuzione del numero delle persone in fuga. Vorrei essere chiaro. Per decenni, il Pakistan e l'Iran hanno ospitato generosamente i rifugiati afghani e continuano a farlo. Gli afghani in entrambi i paesi hanno accesso a servizi praticamente alla pari con i cittadini nazionali. Infatti, generazioni di afghani, in particolare donne, hanno studiato nelle scuole iraniane e pakistane. Non possiamo dimenticarlo.

Ma le recenti ondate di rimpatri forzati in Afghanistan negano a molti rifugiati afghani la protezione di cui hanno bisogno, costringendoli a tornare in un ambiente in cui sono diffuse le violazioni dei diritti umani e la discriminazione, in particolare nei confronti delle donne. Peggio ancora, sappiamo per esperienza che i rimpatri forzati sono in definitiva controproducenti. Servono solo ad esacerbare l'instabilità.

È positivo che i governi iraniano e pakistano e le autorità de facto in Afghanistan abbiano accettato di discutere queste questioni nell'ambito del quadro quadripartito, e spero che il mese prossimo si possa tenere una riunione come proposto. È probabile che nella regione sia necessario un nuovo paradigma che rifletta meglio la composizione mutevole dei flussi di popolazione afghana. Un paradigma che garantisca ai rifugiati afghani di continuare a ricevere la protezione di cui hanno bisogno, creando al contempo più spazio per regolamentare le rotte migratorie per gli altri. L'UNHCR, insieme ai suoi partner, è pronto a sostenere questa importante discussione.

Signor Presidente,

per sua stessa definizione, il movimento forzato di persone è dinamico. Si tratta di un fenomeno complesso: alcune persone possono fuggire da un paese mentre altre vi fanno ritorno. Questa è la realtà odierna, ad esempio, nel Sud Sudan o anche in Sudan.

I flussi migratori e i modelli di spostamento sono in continua evoluzione in risposta a una moltitudine di fattori: certamente la guerra e la violenza, ma anche gli effetti dei cambiamenti climatici, la povertà, le opportunità economiche e così via. Di conseguenza, sono aumentati i flussi migratori misti, composti sia da rifugiati che da migranti. Da un punto di vista giuridico, essi appartengono a categorie distinte. I rifugiati sono costretti a fuggire; i migranti partono per altri motivi. In pratica, spesso si spostano insieme, lungo rotte transnazionali che coprono vaste aree geografiche. Attraverso il Sahara; attraverso il Mediterraneo, i Balcani, il Mare delle Andamane; in America Latina o verso l'Africa meridionale.

Ho parlato ampiamente di questo fenomeno, quindi non mi soffermerò in dettaglio su questo tema. L'UNHCR riconosce pienamente che rispondere ai movimenti misti è una sfida complessa. Sappiamo che i sistemi di asilo possono essere sopraffatti e possono essere utilizzati in modo improprio da persone che non hanno bisogno di protezione internazionale, a scapito dei rifugiati, per i quali l'asilo è fondamentale per la sopravvivenza. E siamo d'accordo: è imperativo mantenere l'integrità e l'efficacia dei sistemi di asilo. In questo possiamo aiutarvi.

Ma la soluzione non sta nelle restrizioni, nelle barriere e nei respingimenti, pratiche che violano gli obblighi internazionali e mettono in pericolo le persone che non hanno altra scelta che fuggire.

Per essere chiari: le misure legali che rafforzano i confini sono assolutamente legittime. Anzi, sono necessarie. Ma tali misure di controllo e deterrenza non sono sufficienti in quanto, da sole, non risolvono il problema.

È invece più strategico esaminare l'intero percorso di fuga e individuare misure che forniscano protezione e opportunità alle persone in movimento e a chi le ospita, il più presto possibile, prima che attraversino diversi confini. Questa è l'essenza dell'approccio “basato sul percorso” (route-based approach) che l'UNHCR, insieme all'Organizzazione internazionale per le migrazioni e ad altri, ha sostenuto negli ultimi anni. Tali misure comprendono il rafforzamento dei sistemi di asilo, lo sviluppo di meccanismi per il trasferimento legale dei richiedenti asilo verso paesi terzi sicuri o, per coloro che non necessitano di protezione, l'istituzione di programmi di rimpatrio. Esse comprendono anche la creazione di percorsi migratori prevedibili e regolamentati per motivi di lavoro, istruzione o ricongiungimento familiare.

Anche in questo caso, vi incoraggio a consultarci. Abbiamo pubblicato ampie linee guida tecniche su questi temi, affinché le risposte possano essere efficaci e legittime.

Questo mi porta al punto successivo.

Recentemente, in parte come reazione a queste sfide, si è assistito a una spinta a mettere in discussione la continua rilevanza del quadro giuridico internazionale che disciplina l'asilo.

Con il pretesto dell'efficacia, o sulla base di argomenti secondo cui l'asilo mina la sovranità nazionale, alcuni hanno persino chiesto che la Convenzione sui rifugiati del 1951 sia sostituita da un nuovo strumento. Queste argomentazioni sono errate. Vi spiego perché.

Innanzitutto, dobbiamo tenere presente che i principi fondamentali dell'asilo sono universali e senza tempo. Le persone che fuggono dalla persecuzione e dalla violenza dovrebbero essere accolte e protette, non respinte o lasciate morire. Spero che su questo siamo tutti d'accordo. Questo è il principio di non respingimento che è al centro della Convenzione del 1951 e chiaramente stabilito come norma dal diritto internazionale consuetudinario. E la Convenzione è lo strumento che ha guidato gli Stati nella codificazione di queste norme di lunga data. In quanto tale, è un'espressione diretta della sovranità statale. Questo è un punto fondamentale.

Ma l'asilo non è una scappatoia per l'immigrazione. Al contrario, gli Stati hanno il dovere di gestire le proprie frontiere. Anche su questo siamo tutti d'accordo. L'istituzione moderna dell'asilo, che affonda le sue radici nella Convenzione sui rifugiati, è lo strumento che consente agli Stati di adempiere a entrambi gli obblighi: nei confronti dei propri cittadini e dei rifugiati.

Mettere in discussione l'efficacia del quadro attuale significa anche considerarlo in modo selettivo, da una prospettiva troppo ristretta, come se tutti i rifugiati si stessero trasferendo in Europa o in Nord America. È esattamente il contrario. Ogni giorno, grazie al rispetto dell'asilo in Ciad, ad esempio, vengono salvate le vite di migliaia di rifugiati sudanesi. Le vite dei rifugiati sono state salvate in Moldavia, Etiopia, Bangladesh, Costa Rica e in molti altri luoghi grazie all'istituzione che abbiamo costruito tutti insieme. Cosa potrebbe esserci di più efficace in un momento in cui la forza militare sta sostituendo la diplomazia e il dialogo come mezzo per risolvere i conflitti?

Infine, è importante notare che l'attuale quadro internazionale si è evoluto nel tempo, anche se i principi fondamentali e la stessa Convenzione sui rifugiati sono rimasti invariati. Questa è la sfida: rimanere fedeli ai principi, ma trovare modi innovativi per applicarli. Gli Stati hanno sviluppato numerosi strumenti giuridici per rendere operativi questi principi e tenere conto delle specificità regionali, come il Patto sull'asilo e la migrazione adottato dall'Unione europea.

E il Patto globale sui rifugiati, che l'Assemblea Generale – voi – ha approvato nel 2018, continua a essere uno strumento fondamentale a cui gli Stati possono attingere per rispondere alle crisi di sfollati e rifugiati odierne, comprese quelle create, aggravate e accelerate da eventi climatici estremi, come sarà discusso tra le altre sfide alla COP30 in corso a Belém.

Signor Presidente,

un ulteriore punto su cui vorrei riflettere riguarda la natura delle risposte umanitarie. La creazione di infrastrutture umanitarie autonome non è più un'opzione. È imperativo che le risposte umanitarie seguano un modello più sostenibile, soprattutto ora che i finanziamenti sono diventati imprevedibili.

Lo hanno affermato numerosi paesi che ospitano rifugiati – Kenya, Etiopia, Uganda, Rwanda, Brasile, Messico, Egitto, Giordania, Turchia e molti altri. Hanno riconosciuto che solo attraverso l'inclusione dei rifugiati nelle strutture esistenti, a livello nazionale e locale, le risposte alla fuga possono essere sostenibili. Ciò significa investire nell'autosufficienza. Significa dare ai rifugiati e agli sfollati accesso all'istruzione, ai servizi, ai finanziamenti, al lavoro. In questo modo, potranno contribuire meglio alle comunità ospitanti, in un contesto più coeso. Questo è un esempio concreto del nesso tra umanitario, sviluppo e pace.

Per dare i suoi frutti, questo processo richiede tempo e risorse. Non avviene dall'oggi al domani, soprattutto perché il passaggio all'inclusione e alla sostenibilità deve riflettere le specificità, i vincoli e le priorità locali: ecco perché i governi nazionali devono guidarlo e perché l'UNHCR, i partner e i donatori devono continuare a sostenerlo. Come ripeto da 10 anni, la responsabilità nei confronti dei rifugiati non può essere assunta solo dai paesi ospitanti, ma deve rimanere condivisa, anche dal punto di vista finanziario.

Sono orgoglioso che, nell'ultimo decennio, abbiamo mobilitato competenze e finanziamenti significativi a sostegno di tali sforzi. Molte agenzie di sviluppo bilaterali sono state partner forti, così come le istituzioni finanziarie internazionali. La partnership con la Banca mondiale ha avuto particolare successo, con lo stanziamento di 5,5 miliardi di dollari direttamente ai paesi ospitanti rifugiati a basso reddito attraverso la Finestra IDA per le comunità ospitanti e i rifugiati. I paesi ospitanti a reddito medio hanno avuto accesso ai finanziamenti attraverso il Global Concessional Financing Facility (GCFF), un programma fondamentale che ha avuto un impatto significativo anche sui rifugiati e sui paesi beneficiari. È positivo, anche se la decisione deve essere formalizzata, che pochi giorni fa a Yerevan sia stato raggiunto un accordo politico per prorogare il GCFF di altri cinque anni.

Signor Presidente,

prima di concludere, devo affrontare la questione dell'impatto che la drastica e improvvisa riduzione dei finanziamenti di quest'anno avrà sull'UNHCR e sul settore umanitario nel suo complesso.

Prevediamo che alla fine dell'anno avremo a disposizione 1,3 miliardi di dollari in meno rispetto al 2024, con una diminuzione del 25% e un crollo dei contributi non vincolati. Prevediamo inoltre che quest'anno riceveremo meno di 4 miliardi di dollari, su un budget di 10,6 miliardi. L'ultima volta che abbiamo ricevuto meno di 4 miliardi è stato nel 2015, quando il numero di persone in fuga era la metà di quello attuale.

Abbiamo fatto il possibile per assorbire internamente queste riduzioni, nella speranza di minimizzare l'impatto sui rifugiati e sui paesi ospitanti. Abbiamo ridotto il nostro organico del 30% - con ripercussioni su quasi 5.000 colleghi - e tagliato drasticamente le spese. Abbiamo ridotto la nostra presenza operativa a livello globale, consolidandola o riducendola in 185 località.

Tuttavia, di fronte a riduzioni così estese, non abbiamo avuto altra scelta che tagliare attività salvavita e che cambiano la vita. In tutti i settori. Con riduzioni così ampie e così poco tempo a disposizione, non si poteva risparmiare nulla.

Alcuni sostengono che queste riduzioni fossero necessarie da tempo. Che rappresentino un'opportunità per l'UNHCR di diventare più efficiente, di tornare al nostro “mandato fondamentale”, sottintendendo che fino ad ora siamo stati in qualche modo inefficienti o poco concentrati. Non potrei essere più in disaccordo. Questi tagli renderanno più difficile salvare vite umane e adempiere al nostro mandato.

Per questo motivo faccio appello a tutti coloro che possono aiutarci a colmare il divario prima della fine dell'anno e a prendere impegni di finanziamento anticipati e flessibili per il 2026.

Naturalmente ce la faremo. Ridefinendo ancora una volta le priorità delle nostre attività e raddoppiando i nostri sforzi per rendere l'organizzazione più efficiente, sulla base di un decennio di trasformazione e modernizzazione e in modo complementare agli sforzi di riforma dell'intero sistema delle Nazioni Unite, tra cui l'Humanitarian Reset e l'iniziativa UN80 del Segretario Generale, a cui contribuiamo e partecipiamo attivamente.

Signor Presidente,

illustri delegati,

dopo 10 anni impegnativi ma affascinanti, il mio mandato giunge al termine tra poche settimane e quindi oggi vi saluto, con molti ringraziamenti per il vostro sostegno.

È stato un enorme privilegio ricoprire questa responsabilità, il culmine di un percorso umanitario iniziato nel suo Paese, signor Presidente, quasi 42 anni fa, al confine tra Thailandia e Cambogia. L'ultima pietra miliare istituzionale sotto la mia guida sarà la revisione dei progressi del Forum globale sui rifugiati tra poco più di un mese.

Ciò coinciderà con il 75° anniversario dell'UNHCR. Non riesco a pensare a un modo più appropriato per concludere il mio mandato che ricordare chiaramente che siamo stati al fianco dei rifugiati, degli sfollati, degli apolidi e di coloro che li ospitano da così tanto tempo, nella buona e nella cattiva sorte, nei momenti felici e in quelli difficili, ma anche che il nostro lavoro non è ancora finito e che questa organizzazione, di cui sono molto, molto orgoglioso, continuerà a esistere fino a quando non sarà più necessaria.

Grazie.