Di Iosto Ibba, luglio 2014
Lo incontro una prima volta al porto di Palermo, solo, seduto in un angolo della tenda della Croce Rossa, appena sbarcato in suolo Italiano e in attesa di un primo controllo medico.
Nuruddin è un ragazzo somalo che non ha ancora 30 anni, i suoi occhi tradiscono stanchezza e apprensione. Quando mi avvicino per presentarmi, mi risponde con poche parole e senza alzare lo sguardo: sua moglie e’ appena stata portata in ospedale e con lei la loro bambina, nata due mesi fa in Libia.
Lo incontro nuovamente più tardi, all’ombra e non più da solo. Stavolta è lui ad avvicinarsi e, senza darmi il tempo di riconoscerlo, mi sorride e mi stringe la mano. “Queste sono Ayaan e Fatima, mia moglie e mia figlia” mi dice, indicandomi orgoglioso le due persone sedute accanto a lui, l’una in braccio all’altra “Fatima è nata da poco più di 60 giorni, gli ultimi dieci li ha trascorsi in mare”.
Tre anni fa, in Somalia, non si conoscevano ancora, ma stavano entrambi maturando l’idea di fuggire, schiacciati dal peso di una situazione ormai insostenibile.
Per la famiglia di Nuruddin il padre era sempre stato un punto di riferimento, la radice che li teneva ancorati nel paese. La mancanza di lavoro e di sicurezza non erano mai stati un motivo sufficiente per andarsene.
“Dopo la morte di mio padre, nessuno ha più avuto il coraggio di rimanere nella nostra casa”. Nel giro di pochi mesi, sua madre e le sue sorelle erano fuggite in Kenya, cercando protezione nel campo di Dadaab, il più grande campo rifugiati del mondo. Nuruddin ha scelto l’Europa, consapevole dei rischi che avrebbe comportato la pericolosissima traversata, ma valutandola più importante della salvezza transitoria offerta dai campi profughi nella regione del Corno d’Africa. “Non potevo rimanere lì”, racconta “sarei rimasto bloccato per anni, senza possibilità di riscattare la mia vita”.
La conversazione prosegue, ma Ayaan continua a non sentirsi a proprio agio, l’esperienza vissuta in Somalia è una ferita ancora aperta. Il pianto della bambina le offre la possibilità di staccarsi per qualche minuto dal dialogo, lasciando che sia il marito a parlare per lei.
Ayaan, come molte altre donne somale prima di lei, era stata promessa in sposa ad un miliziano legato ad Al Shabaab, un gruppo terroristico attivo in Somalia, tristemente noto per la violenza delle sue azioni. L’hanno rinchiusa in una stanza e le hanno precluso ogni contatto con il mondo esterno, non le facevano neppure comunicare il suo stato di salute ai genitori, se non attraverso intermediari.
Ascoltando questo racconto, sembra incredibile trovarla seduta su una panchina sul molo di Palermo, ma ancora più sorprendente è stato il modo in cui è riuscita a scappare. Sopraffatta dalla disperazione, la famiglia è stata costretta a pagare un altro gruppo armato che, irrompendo nella prigione della ragazza, l’ha liberata allo stesso modo in cui era stata rapita, con la forza. Dopo l’irruzione, non ha avuto altra possibilità se non quella di fuggire.
Si sono incontrati al momento di partire, affidandosi per caso allo stesso gruppo di trafficanti per attraversare il Sudan e, più in là ancora, il deserto del Sahara, in direzione Libia. Da lì non si sono più separati.
Nel 2012, quando sono arrivati in Libia, la situazione era ancora relativamente stabile e sembrava che la ricostruzione del paese non fosse tanto lontana. D’altronde, i pochi soldi accumulati durante la loro vita erano serviti per pagare i trafficanti, non avevano poi così tanta scelta. Insieme sono ripartiti da zero e hanno cercato di ricostruirsi una vita in un paese che non ha mai facilitato l’integrazione degli stranieri. “Stavamo scappando da violenza e persecuzioni, ma ci siamo trovati esattamente nella stessa situazione”, racconta Nuruddin. “Per due anni e mezzo abbiamo vissuto alla giornata, sotto costante minaccia di subire violenze. Ci sentivamo soli ed in pericolo, ma abbiamo continuato”.
In Libia si sono sposati, poi è arrivata Fatima, la loro bambina. In quel momento hanno capito che non era più possibile far coincidere il proprio futuro con quel paese. Conoscevano i pericoli collegati alla traversata, sapevano anche delle centinaia di persone morte in mare, e delle condizioni in cui li avrebbero tenuti i trafficanti, ma hanno deciso che valeva la pena assumersi quel rischio.
Sono arrivati ad inizio giugno, soccorsi dalla Marina Militare italiana, dopo dieci interminabili giorni in balia delle onde del Mar Mediterraneo. Con loro c’erano altre 750 persone.
Quella in Somalia resta una delle più gravi e lunghe crisi al mondo. Un terzo della popolazione della Somalia, stimata in 7,5 milioni di persone, è stata costretta a lasciare la propria area d’origine e vive in esilio o sfollata all’interno del paese. Nel 2014, oltre 2.500 Somali hanno scelto di intraprendere la pericolosissima traversata del Mediterraneo, caratterizzando sempre più il viaggio verso l’Italia come una vera e propria rotta d’asilo.
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