A causa dei lockdown per il COVID-19 che privano molti del lavoro e del reddito, un numero crescente di rifugiati e richiedenti asilo soffre la fame.
Ma poi è iniziata la pandemia di COVID-19. Kimberly ha perso il lavoro, e lei e suo marito hanno dovuto iniziare a saltare i pasti per avere abbastanza cibo per i figli, due gemelli. Dopo aver trascorso mesi mangiando solo una volta al giorno, Kimberly ha lo stesso peso di quando ha lasciato il Venezuela nel 2018.
“È terribile perché non si può fare nulla. La credenza è vuota, ma a causa delle restrizioni non si può uscire a cercare un lavoro e guadagnare soldi per il cibo”, ha detto Kimberly, che ha perso il lavoro di assistente chef quando il virus ha iniziato a diffondersi in America Latina nel marzo 2020. È stata poi licenziata da un’altra posizione che aveva ricoperto per un breve periodo, prima di un secondo lockdown in Perù questo gennaio.
“Siamo assolutamente disperati”, ha detto.
Situazioni come quella di Kimberly si stanno verificando ovunque. Le restrizioni dovute al coronavirus sono costate centinaia di milioni di posti di lavoro in tutto il mondo e hanno fatto precipitare un numero incalcolabile di persone nel crollo finanziario. In questa crisi, i rifugiati – che a volte sono costretti a fuggire dalle loro case con poco più dei vestiti che indossano – sono particolarmente vulnerabili all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione. Dopo aver tirato avanti come meglio potevano nell’ultimo anno, molti ora si trovano in gravi difficoltà, arrivando a saltare i pasti, fare la fila alle mense dei poveri o ricorrere all’elemosina o alla ricerca di avanzi di cibo.
“Nessun paese è stato risparmiato” dalle devastazioni della pandemia di coronavirus, secondo un recente rapporto del Programma Alimentare Mondiale (WFP) e dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni che esamina gli stretti legami tra fame globale e migrazioni forzate. Il rapporto nota che la maggior parte delle persone costrette a fuggire vive nelle aree urbane, dove l’impatto economico del COVID-19 è stato più forte e dove spesso risiedono i primi a perdere il lavoro in tempi di crisi.
Il WFP stima che, a causa della pandemia, circa 270 milioni di persone potrebbero trovarsi in condizioni di grave insicurezza alimentare entro la fine del 2020. Questo numero è circa il doppio delle 135 milioni di persone stimate nel 2019 – un anno record per la fame. E dato che si stima che l’80% degli sfollati in tutto il mondo si trovi in aree colpite da alti livelli di malnutrizione e insicurezza alimentare acuta, la pandemia ha reso ancora peggiore una situazione già disperata.
Mettere il cibo in tavola è una lotta per Chinar Gul, 45 anni, fin dal 2016, quando un razzo ha colpito la sua casa a Kunduz, Afghanistan, uccidendo suo marito e costringendola a fuggire nella capitale, Kabul, con i suoi cinque figli. Senza suo marito a mantenere la famiglia, Chinar non ha avuto altra scelta che mandare suo figlio di 10 anni a raccogliere il cibo avanzato negli alberghi locali.
La famiglia è sopravvissuta con queste elemosine fino alla pandemia, quando gli hotel di Kabul hanno chiuso, mentre la città è stata chiusa per arginare la diffusione del virus.
“Dopo questo, eravamo nei guai”, ha detto Chinar. “Durante l’isolamento, abbiamo saltato uno o due pasti al giorno. Io davo solo acqua ai miei figli e dicevo loro che gli avrei dato da mangiare più tardi”.
Ora, il figlio di 10 anni di Chinar passa le sue giornate a raccogliere rifiuti che possono bruciare per stare al caldo, mentre la famiglia si affida al cibo regalato dai vicini. Quando i vicini non hanno niente da dare, “la notte dormiamo affamati”, ha detto Chinar.
Anche prima del COVID-19, decenni di conflitti, disastri naturali ricorrenti e un’economia debole avevano costantemente eroso la capacità di milioni di afgani di nutrirsi. All’inizio della pandemia, il paese stava già affrontando una delle più gravi crisi alimentari del mondo, e alla fine dell’anno, 16,9 milioni di persone – uno sconcertante 42% della popolazione afgana – stavano affrontando livelli emergenziali di insicurezza alimentare. Si stima che quasi la metà dei bambini sotto i cinque anni sia a rischio di malnutrizione acuta quest’anno.
In risposta, l’UNHCR e altre organizzazioni umanitarie si sono impegnate a fornire cibo e altri aiuti salvavita a 15,7 milioni di afghani bisognosi nel 2021.
Gli aiuti sono fondamentali anche per evitare che rifugiati e sfollati interni nell’Africa orientale soffrano la fame, in particolare ora che il lockdown per il COVID-19 ha prosciugato le entrate delle piccole imprese e del lavoro occasionale. Ma le recenti carenze di fondi hanno portato a tagli delle razioni alimentari per oltre 3 milioni di rifugiati nella regione. L’UNHCR e il WFP hanno avvertito che i tagli – che hanno visto le razioni tagliate di oltre la metà in alcuni paesi – potrebbero portare a un aumento dell’incidenza della malnutrizione, dell’anemia e dell’arresto della crescita dei bambini.
“La pandemia è stata devastante per tutti, ma per i rifugiati ancora di più”, ha detto Clementine Nkweta-Salami, direttore regionale dell’UNHCR per l’Est, il Corno d’Africa e i Grandi Laghi. “Se non vengono resi disponibili più fondi, migliaia di rifugiati – compresi i bambini – non avranno abbastanza da mangiare”.
Questo è già il caso di Vicky Comfort, una diciassettenne del Sud Sudan che vive nell’insediamento di rifugiati Rhino Camp, nel nord-ovest dell’Uganda. La sua famiglia di sei persone ha fatto affidamento sulle razioni di cibo da quando è stata costretta a fuggire. Ma a causa di un deficit di fondi di 77 milioni di dollari per le operazioni in Uganda – che ospita la più grande popolazione di rifugiati in Africa – il WFP è stato costretto a tagliare del 40% l’assistenza alimentare a circa 1,27 milioni di rifugiati a febbraio.
“Eravamo abituati a mangiare due volte al giorno. Ora mangiamo una volta sola”, ha detto Vicky, aggiungendo che ha notato gli effetti che la ridotta assunzione di cibo della famiglia ha avuto sulla sua salute. “Ho perso peso e la mia immunità è bassa. Mi ammalo sempre a causa della scarsa alimentazione”.
Oltre a saltare o ridurre i pasti, Nkweta-Salami dell’UNHCR ha detto che i tagli alle razioni di cibo hanno portato i rifugiati a ricorrere a varie altre “strategie negative”, tra cui l’accensione di prestiti ad alto interesse, la vendita di beni e l’invio dei figli a lavorare.
“C’è spesso una disperazione e una sensazione di mancanza di alternative”, ha detto.
Basirika Doro, una donna sud sudanese di 26 anni che vive nell’insediamento di rifugiati di Imvepi, sempre nel nord-ovest dell’Uganda, ha detto che l’esperienza della fame ha portato la sua famiglia a ripensare alla loro decisione di lasciare il Sud Sudan.
“Questo ci costringe sempre a pensare al nostro paese d’origine e a chiederci cosa sarebbe successo se non fossimo fuggiti in questo campo, forse la vita sarebbe migliore”, ha detto.
Reportage di Abdul Basir Wafa a Kabul; Peter Eliru nell’insediamento di rifugiati di Rhino Camp in Uganda; e Vincent Kasule nell’insediamento di rifugiati di Imvepi in Uganda.
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