Quattro generazioni di una famiglia di rifugiati Rohingya raccontano come l’apolidia abbia influenzato le loro vite ed offuscato le loro speranze di tornare in Myanmar.
Con gli occhi lattiginosi a causa dell’età, Gul Zahar, 90 anni, ripercorre le ingiustizie che hanno perseguitato la sua famiglia.
Senza diritti nè libertà fondamentali in Myanmar, Gul è fuggita in Bangladesh per la prima volta nel 1978, poi di nuovo nel 1991 e ancora una volta nell’agosto scorso, quando il suo villaggio fu incendiato in un attacco.
Ora è bisnonna, e vive in una sola stanza con quattro generazioni della sua famiglia in un campo del Bangladesh. “È stata una vita di dolore”, dice.
Gul e la sua famiglia sono tra i 700.000 Rohingya fuggiti dal Myanmar in Bangladesh a partire da agosto 2017. La violenza che li ha spinti qui negli ultimi mesi segue decenni di profonda repressione ed esclusione sociale nella loro patria, dove non hanno la cittadinanza.
Il figlio di Gul, Oli Ahmed, 53 anni, spiega come l’apolidia abbia soffocato le loro vite quotidiane.
“Non potevamo muoverci liberamente… Non potevamo visitare i nostri vicini. Era una sofferenza intollerabile”.
“Non potevamo muoverci liberamente… Non potevamo visitare i nostri vicini. Era una sofferenza intollerabile”, dice Oli, contadino fuggito in Bangladesh per la prima volta nel 1991. “Coltivavamo verdure, ma non potevamo andare al mercato per venderle. Quando l’abbiamo fatto, dovevamo vendere a prezzi stracciati”.
Almeno 10 milioni di persone in tutto il mondo non hanno nazionalità e di conseguenza affrontano una vita di ostacoli e ingiustizie; tra loro i Rohingya sono di gran lunga il gruppo più grande. Nati e cresciuti in Myanmar per generazioni, non conoscono nessun altro posto da chiamare casa.
Oli dice che le restrizioni poste alla loro comunità includevano posti di blocco in strada e il coprifuoco dalle 18:00 alle 6:00. In queste ore della giornata la famiglia non poteva nemmeno accendere una candela nella propria casa.
Senza avere accesso al sistema bancario, vivevano alla giornata. “Vivevamo a livello puramente fisico, per la sola sopravvivenza. E ciò che guadagnavamo in un giorno non era sufficiente per sopravvivere”, dice.
Per la moglie di Oli, Ayesha Begum, 40 anni, la povertà e le restrizioni alla libera circolazione per i Rohingya significavano non avere accesso all’assistenza sanitaria quando era incinta dei suoi figli.
“Avevo febbre e mal di testa, ma ero terrorizzata all’idea di andare in ospedale”, dice, seduta sul pavimento della stanza in bambù che accoglie la famiglia, accanto al genero Mohammad Ayub, 31 anni.
Mohammad, che è fuggito per la prima volta in Bangladesh da bambino nel 1991, ricorda che avrebbe voluto contribuire alla vita civile in Myanmar. “Essere apolide significa non essere parte del proprio paese”, dice. “Non potevo arruolarmi nell’esercito, o ottenere un’istruzione. Se ne avessimo l’opportunità, saremmo parte del nostro paese in ogni aspetto. Mi darebbe la mia dignità”.
Seduto con la figlia di tre anni, Kismat Ara, sulle ginocchia, cerca di dare una misura alla sua angoscia. “Un giorno è composto da 24 ore. Ma non ho mai trovato pace nemmeno per cinque minuti”, dice. “E’ la cosa peggiore. Fin dall’inizio della mia vita, non ho avuto nemmeno cinque minuti di pace”.
Accanto a lui sul pavimento c’è suo cognato, Mohammad Siddiq, 25 anni, che una volta sognava di diventare un insegnante. Ma tra i diritti di base a cui non aveva accesso in Myanmar, c’era anche il diritto allo studio.
“Non ci è stato permesso di andare nelle scuole ufficiali” dice, sottolineando che nel periodo dei monsoni studiava occasionalmente a casa. “Ma ogni volta, quando arrivava l’anno seguente, avevo dimenticato ciò che avevo imparato. Voglio trovare un lavoro, essere un insegnante, aiutare gli altri, ma come posso farlo? Non so leggere o scrivere. E non ci spero più. Ho perso la speranza”.
Quando ad agosto il suo villaggio è stato attaccato, la famiglia non poteva ricorrere alla giustizia. Ancora una volta, l’unica scelta era fuggire.
Le autorità del Bangladesh e del Myanmar hanno firmato un accordo sul rimpatrio volontario nel novembre 2017. Negli ultimi mesi, l’UNHCR ha firmato due protocolli d’intesa, uno con il Bangladesh e l’altro con il Myanmar, che definisce un quadro in linea con gli standard internazionali per i rimpatri volontari. Per l’UNHCR le condizioni al ritorno dei Rohingya non sono ancora favorevoli, poiché le cause della fuga non sono state affrontate e non sono stati compiuti sostanziali progressi nell’affrontare l’esclusione e negazione dei loro diritti. Senza accesso alla cittadinanza, la maggior parte della famiglia di Gul non vuole tornare a casa.
“Quello che so è che non tornerò indietro”, dice Oli Ahmed. “Voglio che la mia voce sia ascoltata. Voglio che torni la pace e voglio poter ottenere la cittadinanza. La cittadinanza è la chiave di tutto: pace, sicurezza e istruzione”.
“Voglio che la mia voce sia ascoltata. Voglio che torni la pace e voglio poter ottenere la cittadinanza”.
Mohammed Ayub è d’accordo: “La prima cosa che vogliamo è il riconoscimento che, come Rohingya, siamo parte del Myanmar. Poi, vogliamo pieno accesso ai nostri diritti, e quindi la restituzione completa di tutto ciò che abbiamo perso”, dice.
“Senza cittadinanza, non tornerò … Ne abbiamo abbastanza”, aggiunge.
A 90 anni, Gul la pensa diversamente, sebbene sia grata al Bangladesh per averla accolta. “Non voglio morire qui. Voglio morire nella mia terra”.
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