Di Iosto Ibba – maggio 2014
Augusta -Poco prima che le due navi della Marina Militare attraccassero in porto, le autorità competenti, l’UNHCR e i loro partner sul terreno erano già schierati, pronti ad accogliere le 488 persone salvate due giorni prima in mare aperto. Come ogni sbarco, erano già state approntate tutte le misure necessarie a garantire un’accoglienza adeguata ma stavolta l’apprensione era più grande: a bordo c’erano infatti 133 minori, alcuni di loro con meno di cinque anni, altri ancora provati dal viaggio e bisognosi di cure immediate.
Tra i primi a scendere c’è Naar, 6 anni, carnagione chiara, lentiggini e i capelli rosso fuoco, come il significato del suo nome. Si intuisce subito che c’è qualcosa che non va. Raggiunge lentamente la tenda allestita per riparare le persone da un sole già estivo e si appoggia a suo padre per ogni passo che deve fare. Sotto le scarpe ormai consumate, il suo piede è immobile, le ossa frantumate da un incidente occorso sei mesi prima. Le fratture non hanno ancora avuto il tempo di ricomporsi e la gamba continua a far male, specialmente se sottoposta a sforzi improvvisi.
Sembra incredibile che questo bambino abbia appena superato un viaggio di 12 giorni nel mezzo del Mediterraneo, schiacciato con 250 Siriani e Palestinesi in una carretta del mare, in balia dei trafficanti e di onde altissime. Deve essere stata una situazione terribile, ma Naar non fa una piega e la sua espressione non tradisce alcuna sofferenza.
Al suo arrivo gli vengono dati acqua, cracker e biscotti, riceve anche un paio di scarpe di gomma nuove. Una vettura lo accompagna nella vicina zona d’accoglienza, dove viene visitato e sistemato in un lettino più adatto alle sue condizioni.
Seduto accanto a Naar c’è suo padre, che da quando sono partiti non l’ha abbandonato neanche per un istante. Stanno giocando insieme a braccio di ferro e sono sereni, sembra che la terribile traversata in mare sia solo un brutto ricordo. “Ci avete salvato la vita” racconta Husaam “non saprò mai come ringraziarvi. Un momento stavamo per annegare, il momento dopo invece eravamo a bordo di una delle vostre navi, al riparo dalla tempesta. Non immaginate quanto apprezziamo quello che fa la popolazione italiana per noi.”
Naar e suo padre sono partiti da Alessandria d’Egitto su una barchetta in ferro e durante la traversata si sono ricongiunti ad un’altra imbarcazione in avaria, a cui hanno permesso di proseguire il viaggio trainandola con una corda, ribellandosi alle disposizioni date dagli scafisti. Al quarto giorno di traversata hanno esaurito acqua e cibo e, per non morire di sete, si sono dovuti arrangiare bevendo l’acqua utilizzata per la pulizia del motore, filtrata con i loro stessi vestiti. Più di 130 bambini sono rimasti bloccati in quella nave per una settimana, con le condizione del mare che col passare dei giorni diventavano sempre più cattive. Il loro viaggio è durato in tutto 12 giorni.
Naar, con suo padre, è stato l’unico membro della famiglia a partire verso l’Europa. In Egitto ha lasciato sua madre e le sue due sorelle, entrambe adolescenti. “Al momento della partenza era molto spaventato” ricorda Husaam “sapevamo di non avere altra scelta, Naar aveva bisogno di cure, ma non riusciva a rassegnarsi all’idea di dover lasciare indietro il resto della famiglia”.
Sono arrivati in Egitto più di un anno fa da Damasco, ma in tutto questo tempo la loro famiglia non è mai riuscita ad integrarsi con la comunità locale. “Per le persone provenienti dalla Siria è difficile,” racconta Husaam “agli occhi degli Egiziani siamo solo estranei e la diffidenza che li accompagna il più delle volte ci ha progressivamente isolato da loro.”
In Egitto, Husaam e sua moglie avevano trovato un alloggio, ma non c’erano opportunità di lavoro. La vita di tutti i giorni era precaria e loro facevano fatica a procurare cibo e vestiti per i figli. “Non mi ero mai trovato in una situazione del genere” ha raccontato Husaam “a Damasco avevo tre negozi d’abbigliamento, nel giro di qualche mese invece non riuscivo neanche a trovare una scuola dove poter iscrivere le mie due figlie.”
Naar, invece, a scuola ci andava tutti i giorni e la passeggiata che faceva al mattino con i suoi genitori per raggiungere l’edificio scolastico era una piccola conquista, il simbolo di una routine riacquistata. “Dopo l’incidente non è più riuscito a camminare” racconta il padre “una macchina di grossa cilindrata è sbucata fuori all’improvviso mentre stava attraversando la strada, investendolo”. “Gli ha frantumato le ossa del piede sinistro” continua, mostrando le fotografie dell’impatto, “e non si è neanche fermata ad aiutarci.”
Più al nord, in Germania, Naar potrà finalmente completare il lungo processo di riabilitazione ma il suo primo pensiero è ancora rivolto alla famiglia. Suo padre gli ha spiegato che una volta fatta la richiesta d’asilo nel paese, potranno anche inoltrare quella per il ricongiungimento familiare, evitando alla madre ed alle due sorelle la terribile traversata. “Sono sicuro che con il tempo guariranno sia le ferite del corpo, che le cicatrici provocate dalla guerra” ha concluso il padre.
Come Naar, 5,5 milioni di bambini sono stati colpiti dal conflitto in Siria, più di un milione di loro è stato costretto a fuggire dal paese, circa la metà del numero totale dei rifugiati Siriani. Molti di loro vivono ancora in condizioni precarie, senza la possibilità di ricevere un’educazione e sotto la costante minaccia di subire traumi indelebili ed abusi.
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