Di Iosto Ibba
Augusta, 22 maggio 2014. La banchina del porto è ormai affollata, al personale schierato dalle autorità si sono affiancati gli operatori del progetto Praesidium e poi, ad uno ad uno, i 488 migranti soccorsi pochi giorni prima da due navi della Marina Italiana impegnate nell’operazione Mare Nostrum.
Dalla scaletta che separa la barca dal suolo italiano, scendono persone di tutte le età, bambini e ragazzi, anziani e donne incinte. La maggioranza di loro viene dalla Siria, con ancora negli occhi la violenza ed i bombardamenti in corso nel paese mediorientale.
Seduti in un angolo, al riparo dalla concitazione dei momenti successivi allo sbarco, Tawfiq e Sabri scherzano tra di loro coinvolgendo lo zio, il cui sguardo non abbandona mai i suoi figli, seduti a pochi passi. Quando mi avvicino, le attenzioni sono tutte per loro. Pochi gesti, una bottiglietta d’acqua ed un aiuto nella traduzione con le autorità, contribuiscono a rompere il muro di diffidenza. Mi presentano i bambini, mi dicono nome ed età, ma loro non mi prestano molta attenzione: non c’è conversazione che tenga quando hai un biscotto in bocca.
Qualche centinaio di metri più avanti, nel piazzale del porto, Dhaki, un anziano signore proveniente dalla capitale della Siria, Damasco, siede per terra, al centro di un piccolo circolo composto da amici e parenti e incurante del sole cocente sulla sua testa. Mi invita a sedermi accanto a lui. Fa caldo quel giorno, ma lui condivide con me la sua bottiglietta d’acqua e la sua storia. Parlando un inglese perfetto, mi racconta che in Siria faceva l’insegnante di lingua e che con due figli sul punto di diventare adulti, si è visto costretto ad abbandonare il suo paese, anche se non avrebbe mai voluto.
Ruwayd invece si avvicina con la sua bambina in braccio, Tahira. Mi rivolge la parola in arabo ed io rispondo in inglese. Per qualche secondo i nostri sguardi si incrociano senza capirsi, ma riusciamo a trovare un inaspettato terreno comune nel portoghese, il mio più stentato del suo. Ruwayd ha lavorato nove mesi in Angola, ed è lì che ha imparato la lingua. Come molti altri compagni di viaggio, il continente africano è stato il suo crocevia: tempo fa, per raccogliere un’opportunità di lavoro, ora, in Egitto, per fuggire dalla guerra ed attraversare il Mediterraneo alla ricerca di un lavoro e di un’altra vita in Europa.
Il piazzale è pieno di bambini che giocano, scherzano, urlano. Uno di loro però si è addormentato e le donne che siedono accanto a lui mi raccontano a bassa voce il loro viaggio. Non sono parenti, non si conoscevano neppure prima di partire, ma interagiscono tra di loro come se la storia prendesse forma grazie al contributo di ognuna di loro.
Isdihar, vent’anni ed occhi azzurro intenso, studiava scienze per la conservazione del patrimonio culturale ed un giorno vorrebbe riprendere i suoi studi. Maryam ha insegnato alle scuole elementari per una vita intera e poco prima di andare in pensione ha assistito, impotente, al collasso di quel sistema scolastico di cui era stata parte integrante per così tanti anni. E poi c’è Abir, che lavorava come produttrice per la TV di stato. Iyad, il padre del bambino, aveva invece un negozio di telefonia, distrutto in seguito ad un bombardamento.
Vengono tutti da Aleppo, seconda città della Siria e casa per più di un milione e mezzo di persone. Sembra incredibile che una delle città più antiche del mondo, capitale culturale del paese ed abitata ininterrottamente dall’antichità, venga ricordata solamente per la guerra e la violenza in corso tra le sue strade.
Ognuna di queste storie racconta una realtà varia e multiforme di cui ora non c’è più traccia. Gli ultimi tre anni della loro vita, dallo scoppio del conflitto, alla fuga, fino al momento dell’arrivo in Europa, vengono raccontati sempre con le stesse parole chiave: “perdite”, “sofferenze”, “difficoltà”, trafficanti”.
Ognuno di questi racconti ha un nome ed un protagonista e rappresenta un pezzo del mosaico di una popolazione, quella siriana, di cui troppo spesso vengono ricordati solamente i numeri.
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